L’ESPERIENZA DI CHRISTINE, UNA DONNA AFFETTA DA SEVERE ME CON EPISODI DI PARALISI
Grazie a Facebook Christine ha condiviso la sua esperienza quando, da ammalata di CFS ME, ha deciso di raccontare cosa le succede all’esaurimento delle sue energie: entra in una specie di coma che nessuno considerava diverso da uno svenimento normale finchè lei stessa non l’ha spiegato ai sanitari.
Ci sembra molto importante che ognuno possa fare tesoro di questa testimonianza parlandone con i propri cari e con le persone con cui si dovrà rapportare soprattutto in ambito medico.
“Paralisi nell’Encefalomielite Mialgica (ME)
Nonostante la paralisi sia riconosciuta come uno dei sintomi appartenenti alla ME, generalmente non viene trattata come parte integrante della malattia, nemmeno nei casi di ME grave/molto grave: viene ignorata, sottovalutata o considerata come non reale.
Ma allora chi tratta o prende seriamente in considerazione la paralisi come sintomo, soprattutto nei casi di Severe ME? E chi sta facendo ricerche sulla paralisi nella ME?
L’esperienza di Christine, una donna affetta da Severe ME con episodi di paralisi.
Solo quando ho letto per la prima volta i primi libri di Greg Crowhurst ho scoperto che anche altri pazienti avevano avuto esperienze di paralisi. Nel mio caso, le paralisi sono sempre scatenate da un evento, tipicamente uno sforzo che eccede i miei limiti. Non riesco ad aprire gli occhi, a muovermi, a parlare, ma riesco a sentire, divento ipersensibile, il dolore aumenta e sento che il mio corpo potrebbe addirittura cadere giù dal letto involontariamente se solo qualcuno poggiasse una tazza sul piattino. Eppure non riesco a fare il benché minimo movimento volontario.
Il mio dentista ha assistito ad un episodio e lo ha definito un blocco neurologico. Le mie estremità diventano fredde, il battito rallenta e la pressione scende di colpo. La temperatura del mio corpo sale e raggiunge anche i 37.6° ma nessuno può accorgersi degli arti congelati! Riesco a pensare ma non riesco a dire una parola. Sono in grado di fare un discorso nella mia mente e mi chiedo cosa non capiscano gli infermieri e lo staff dei medici, visto che fanno l’esatto opposto di quello di cui ho bisogno: urlano “Christine! Christine! mi senti? apri gli occhi se mi senti!” Io li sento, mi fanno male perché urlano e scuotono il letto, ma non riesco a rispondere.“E’ in coma, i suoi occhi tremano” dicono loro, mentre io cerco con tutta l’anima di aprire gli occhi ma soltanto le ciglia si muovono appena, come unico risultato del mio immenso sforzo. Li sento annunciare “Sta avendo un attacco epilettico!” No, sto solo cercando di aprire gli occhi!
Nell’assoluta impotenza di sapere che questo momento passerà – ma senza sapere come poter intervenire – prima che io sia finalmente in grado di comunicare le mie esigenze, il personale sanitario e i medici avranno inflitto involontariamente ancor più dolore e disagio al mio corpo già torturato. Ci possono volere anche quattro ore prima che io possa fare un discorso di senso compiuto, con parole corrette. Le penso, le organizzo nella mente, ma poi, quando trovo l’energia per far uscire un sussurro dalla bocca – uno sforzo che va ben oltre la mia sopportazione, per riuscire a spiegare i miei bisogni – magari nessuno lo sente o, peggio, viene trascurato. L’energia utilizzata per emettere quel sussurro, per quel tentativo di comunicazione, alla fine mi consuma e devo attendere di riprendermi per provare di nuovo, per cercare di spiegare che sto vivendo una paralisi al personale dell’ospedale che nemmeno mi ascolta!
Se invece, molto ipoteticamente, qualcuno mi prende la mano e mi fa una domanda che richiede un semplice “Sì” come risposta – per esempio ′′Christine, mi senti?” – sussurrando sottovoce e lentamente; se mi da il tempo di mandare un messaggio alla mano, dato che il mio cervello ha bloccato i processi neuronali del movimento; se faccio un immenso sforzo per costruire il segnale e muovere un dito, allora posso rispondere con un leggero movimento delle dita, ma chi fa la domanda deve essere sensibile ad ogni minimo tremore, perché questo è tutto quello che posso fare e mi sfinisce.
Mi ci sono voluti diversi anni per arrivare ad avere un Piano Cura scritto che descriva correttamente la paralisi, cosicché oggi, quando capita, mi vengono subito somministrati sedativi per via endovenosa, in modo da farmi riposare e in modo che le mie energie si concentrino solo sugli organi vitali, senza essere ulteriormente sprecate nella relazione con l’ambiente circostante. Anche se a volte la paralisi colpisce solo i miei arti, e quindi sono in grado di parlare lentamente e fare le mie richieste, devo comunque spiegare perché i sedativi via flebo favoriscono il mio recupero, perché i medici non lo capiscono. Dopo anni di tortura, sono riuscita ad arrivare ad una situazione in cui le mie esigenze sono documentate e chi mi conosce in ospedale è consapevole e preparato; ma se incontro personale nuovo per me, che non ha letto il Piano Cura o non lo conosce, allora entro nello stesso inferno di prima.
Eppure sono fortunata, l’inferno passa. Ci vogliono settimane per riprendermi dall’attacco, forse mesi per tornare ai livelli di funzionalità che avevo precedentemente. Se ci riesco, e magari raggiungo un livello di funzionalità anche più elevato, allora questo mi rende una fortunata tra i malati di ME, perché posso ritornare a vivere al (mio) meglio. E invece, posso davvero pensare alla possibilità in cui quell’inferno non passi? No, non credo di essere abbastanza forte da contemplare una simile possibilità – eppure sono una persona incredibilmente forte – ma pensare di vivere in quell’orrenda condizione, al di sotto della soglia di sopravvivenza, è una ipotesi che va oltre la mia immaginazione.
Una volta ho chiesto a un consulente medico perché nessuno ha mai pensato di fare una risonanza magnetica per vedere cosa succede durante l’attacco e la risposta è stata: “dovremmo indurre la paralisi, perché dovremmo volerlo fare?” Non c’è interesse a identificare qual è il vero problema, sono ancora tutti determinati a classificarlo come un malessere psicologico.
Il dentista dell’ospedale, l’ultima volta che la paralisi si è verificata mentre ero con lui, (i dentisti privati non mi toccano nemmeno…), ha registrato i valori della pressione e del battito cardiaco prima, durante e dopo il lavoro, e ha riscontrato un aumento iniziale, una improvvisa caduta e la successiva stabilizzazione su valori bassi. L’ambulanza è arrivata per portarmi al pronto soccorso dello stesso ospedale e io ho pensato che i medici avrebbero detto “donna + dentista = attacco di panico”. E così hanno detto. Il dentista ha mostrato loro le misurazioni della pressione e del battito cardiaco, che non aveva buttato, con l’unico risultato di vederli perplessi mentre si grattavano la testa. Allora hanno cominciato a chiedere al dentista qualcosa della ME perché non ne sapevano nulla!
Perché bisogna arrivare a questi estremi per suscitare l’interesse degli operatori sanitari? Perché non si codifica un processo per ascoltare e rispondere in un modo che davvero risolva i problemi che noi malati affrontiamo? Sono fortunata perché ora la paralisi mi è stata riconosciuta, ma ci sono voluti anni di lotte durante i tanti accessi al pronto soccorso.
Non essere creduti ed essere respinti sono sensazioni terribili. Ricordo di aver letto il libro di Greg Crowhurst qualche anno fa e di aver pensato “allora non sono sola, ce ne sono altri là fuori!” Persone diverse sembrano sperimentare la paralisi in modi diversi, ma pare che i medici non siano nemmeno a conoscenza di questa possibilità. Penso che dovremmo chiedere ai pazienti di tutto il mondo di raccontare le loro esperienze e il loro punto di vista e poi creare una raccolta.
Mi ci sono voluti diversi episodi di paralisi avvenute in ospedale perché i medici ammettessero che è “qualcosa′′ che esiste in me. E poi anni per fare in modo che formalizzassero un Piano Cura per gestirla. Ma riescono a vedere la paralisi come parte riconosciuta dell’ME? Non c’è possibilità! L’unico riferimento che ho visto nei documenti relativi a questa patologia è stato nella versione completa del Canadian Consensus Criteria for ME/CFS del 2003, ed era un solo rigo.
Nel 2012 e nel 2013 ho fatto due test di resistenza su tapis roulant: il primo è durato 90 secondi e il successivo solo 60 secondi, prima che lo staff medico mi fermasse perché il battito cardiaco era arrivato a 160 battiti al secondo. Ovviamente il battito era aumentato troppo rapidamente e io sono entrata in paralisi. Di solito, invece, c’è un ritardo temporale: mi accorgo che la paralisi sta arrivando e che ho forse 10-30 minuti per avvisare qualcuno.
Un’altra volta ho preso una tazza di tè con l’ergoterapista (terapista occupazionale) e mi sono alzata per farlo, ma subito ho sentito di essermi spinta troppo oltre: è stato troppo difficile anche tenere la testa diritta e sono stato riportata in reparto e messa a letto, dove sono entrata in paralisi.
TAC, risonanza magnetica con mezzo di contrasto e angiogramma con contrasto mi fanno lo stesso effetto, però almeno posso fare una risonanza magnetica senza contrasto. Anche la tachicardia protratta per troppo tempo o oltre una soglia limite mi scatena la paralisi, ma ci sono anche altre cose.
L’anno scorso ho fatto in intervento in anestesia generale e i medici hanno approfittato dell’occasione per farmi alcuni controlli di routine e qualche piccolo lavoro dentale: alla fine sono uscita dall’anestesia in paralisi. L’anestesista aveva usato dosaggi di breve durata ed era del tutto consapevole che avrei potuto risvegliarmi in piena paralisi. Sono stata curata brillantemente e sono stata sotto osservazione per quattro ore, mentre i medici monitoravano la paralisi e mi somministravano antidolorifici, e hanno aspettato che fossi almeno in grado di sussurrare prima di rimandarmi in camera mia.
L’enorme differenza di conoscere la procedura che avevamo preparato per questo evento – che l’anestesista e il suo staff sapevano cosa cercare e come gestirmi – ha significato che la mia ripresa fosse molto più veloce. Sono stata in ospedale per quattro settimane, mentre la volta precedente ci sono voluti due mesi perché non era stata messa in atto né la procedura né la formazione del personale. Questo dimostra chiaramente cosa può succedere quando il personale medico ascolta davvero i pazienti e lavora con loro come partner… Eppure ci sono voluti anni di discussioni con l’ospedale, di successivi rifiuti di terapia, anni in cui mi sono sentita dire che era tutto un fenomeno psicologico… la solita roba, prima che finalmente mi ascoltassero e che pianificassero insieme con me il Piano Cura.
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Last Updated: 16 Maggio 2021 by redazione
L’ESPERIENZA DI CHRISTINE, UNA DONNA AFFETTA DA SEVERE ME CON EPISODI DI PARALISI
Grazie a Facebook Christine ha condiviso la sua esperienza quando, da ammalata di CFS ME, ha deciso di raccontare cosa le succede all’esaurimento delle sue energie: entra in una specie di coma che nessuno considerava diverso da uno svenimento normale finchè lei stessa non l’ha spiegato ai sanitari.
Ci sembra molto importante che ognuno possa fare tesoro di questa testimonianza parlandone con i propri cari e con le persone con cui si dovrà rapportare soprattutto in ambito medico.
“Paralisi nell’Encefalomielite Mialgica (ME)
Nonostante la paralisi sia riconosciuta come uno dei sintomi appartenenti alla ME, generalmente non viene trattata come parte integrante della malattia, nemmeno nei casi di ME grave/molto grave: viene ignorata, sottovalutata o considerata come non reale.
Ma allora chi tratta o prende seriamente in considerazione la paralisi come sintomo, soprattutto nei casi di Severe ME? E chi sta facendo ricerche sulla paralisi nella ME?
L’esperienza di Christine, una donna affetta da Severe ME con episodi di paralisi.
Solo quando ho letto per la prima volta i primi libri di Greg Crowhurst ho scoperto che anche altri pazienti avevano avuto esperienze di paralisi. Nel mio caso, le paralisi sono sempre scatenate da un evento, tipicamente uno sforzo che eccede i miei limiti. Non riesco ad aprire gli occhi, a muovermi, a parlare, ma riesco a sentire, divento ipersensibile, il dolore aumenta e sento che il mio corpo potrebbe addirittura cadere giù dal letto involontariamente se solo qualcuno poggiasse una tazza sul piattino. Eppure non riesco a fare il benché minimo movimento volontario.
Il mio dentista ha assistito ad un episodio e lo ha definito un blocco neurologico. Le mie estremità diventano fredde, il battito rallenta e la pressione scende di colpo. La temperatura del mio corpo sale e raggiunge anche i 37.6° ma nessuno può accorgersi degli arti congelati! Riesco a pensare ma non riesco a dire una parola. Sono in grado di fare un discorso nella mia mente e mi chiedo cosa non capiscano gli infermieri e lo staff dei medici, visto che fanno l’esatto opposto di quello di cui ho bisogno: urlano “Christine! Christine! mi senti? apri gli occhi se mi senti!” Io li sento, mi fanno male perché urlano e scuotono il letto, ma non riesco a rispondere.“E’ in coma, i suoi occhi tremano” dicono loro, mentre io cerco con tutta l’anima di aprire gli occhi ma soltanto le ciglia si muovono appena, come unico risultato del mio immenso sforzo. Li sento annunciare “Sta avendo un attacco epilettico!” No, sto solo cercando di aprire gli occhi!
Nell’assoluta impotenza di sapere che questo momento passerà – ma senza sapere come poter intervenire – prima che io sia finalmente in grado di comunicare le mie esigenze, il personale sanitario e i medici avranno inflitto involontariamente ancor più dolore e disagio al mio corpo già torturato. Ci possono volere anche quattro ore prima che io possa fare un discorso di senso compiuto, con parole corrette. Le penso, le organizzo nella mente, ma poi, quando trovo l’energia per far uscire un sussurro dalla bocca – uno sforzo che va ben oltre la mia sopportazione, per riuscire a spiegare i miei bisogni – magari nessuno lo sente o, peggio, viene trascurato. L’energia utilizzata per emettere quel sussurro, per quel tentativo di comunicazione, alla fine mi consuma e devo attendere di riprendermi per provare di nuovo, per cercare di spiegare che sto vivendo una paralisi al personale dell’ospedale che nemmeno mi ascolta!
Se invece, molto ipoteticamente, qualcuno mi prende la mano e mi fa una domanda che richiede un semplice “Sì” come risposta – per esempio ′′Christine, mi senti?” – sussurrando sottovoce e lentamente; se mi da il tempo di mandare un messaggio alla mano, dato che il mio cervello ha bloccato i processi neuronali del movimento; se faccio un immenso sforzo per costruire il segnale e muovere un dito, allora posso rispondere con un leggero movimento delle dita, ma chi fa la domanda deve essere sensibile ad ogni minimo tremore, perché questo è tutto quello che posso fare e mi sfinisce.
Mi ci sono voluti diversi anni per arrivare ad avere un Piano Cura scritto che descriva correttamente la paralisi, cosicché oggi, quando capita, mi vengono subito somministrati sedativi per via endovenosa, in modo da farmi riposare e in modo che le mie energie si concentrino solo sugli organi vitali, senza essere ulteriormente sprecate nella relazione con l’ambiente circostante. Anche se a volte la paralisi colpisce solo i miei arti, e quindi sono in grado di parlare lentamente e fare le mie richieste, devo comunque spiegare perché i sedativi via flebo favoriscono il mio recupero, perché i medici non lo capiscono. Dopo anni di tortura, sono riuscita ad arrivare ad una situazione in cui le mie esigenze sono documentate e chi mi conosce in ospedale è consapevole e preparato; ma se incontro personale nuovo per me, che non ha letto il Piano Cura o non lo conosce, allora entro nello stesso inferno di prima.
Eppure sono fortunata, l’inferno passa. Ci vogliono settimane per riprendermi dall’attacco, forse mesi per tornare ai livelli di funzionalità che avevo precedentemente. Se ci riesco, e magari raggiungo un livello di funzionalità anche più elevato, allora questo mi rende una fortunata tra i malati di ME, perché posso ritornare a vivere al (mio) meglio. E invece, posso davvero pensare alla possibilità in cui quell’inferno non passi? No, non credo di essere abbastanza forte da contemplare una simile possibilità – eppure sono una persona incredibilmente forte – ma pensare di vivere in quell’orrenda condizione, al di sotto della soglia di sopravvivenza, è una ipotesi che va oltre la mia immaginazione.
Una volta ho chiesto a un consulente medico perché nessuno ha mai pensato di fare una risonanza magnetica per vedere cosa succede durante l’attacco e la risposta è stata: “dovremmo indurre la paralisi, perché dovremmo volerlo fare?” Non c’è interesse a identificare qual è il vero problema, sono ancora tutti determinati a classificarlo come un malessere psicologico.
Il dentista dell’ospedale, l’ultima volta che la paralisi si è verificata mentre ero con lui, (i dentisti privati non mi toccano nemmeno…), ha registrato i valori della pressione e del battito cardiaco prima, durante e dopo il lavoro, e ha riscontrato un aumento iniziale, una improvvisa caduta e la successiva stabilizzazione su valori bassi. L’ambulanza è arrivata per portarmi al pronto soccorso dello stesso ospedale e io ho pensato che i medici avrebbero detto “donna + dentista = attacco di panico”. E così hanno detto. Il dentista ha mostrato loro le misurazioni della pressione e del battito cardiaco, che non aveva buttato, con l’unico risultato di vederli perplessi mentre si grattavano la testa. Allora hanno cominciato a chiedere al dentista qualcosa della ME perché non ne sapevano nulla!
Perché bisogna arrivare a questi estremi per suscitare l’interesse degli operatori sanitari? Perché non si codifica un processo per ascoltare e rispondere in un modo che davvero risolva i problemi che noi malati affrontiamo? Sono fortunata perché ora la paralisi mi è stata riconosciuta, ma ci sono voluti anni di lotte durante i tanti accessi al pronto soccorso.
Non essere creduti ed essere respinti sono sensazioni terribili. Ricordo di aver letto il libro di Greg Crowhurst qualche anno fa e di aver pensato “allora non sono sola, ce ne sono altri là fuori!” Persone diverse sembrano sperimentare la paralisi in modi diversi, ma pare che i medici non siano nemmeno a conoscenza di questa possibilità. Penso che dovremmo chiedere ai pazienti di tutto il mondo di raccontare le loro esperienze e il loro punto di vista e poi creare una raccolta.
Mi ci sono voluti diversi episodi di paralisi avvenute in ospedale perché i medici ammettessero che è “qualcosa′′ che esiste in me. E poi anni per fare in modo che formalizzassero un Piano Cura per gestirla. Ma riescono a vedere la paralisi come parte riconosciuta dell’ME? Non c’è possibilità! L’unico riferimento che ho visto nei documenti relativi a questa patologia è stato nella versione completa del Canadian Consensus Criteria for ME/CFS del 2003, ed era un solo rigo.
Nel 2012 e nel 2013 ho fatto due test di resistenza su tapis roulant: il primo è durato 90 secondi e il successivo solo 60 secondi, prima che lo staff medico mi fermasse perché il battito cardiaco era arrivato a 160 battiti al secondo. Ovviamente il battito era aumentato troppo rapidamente e io sono entrata in paralisi. Di solito, invece, c’è un ritardo temporale: mi accorgo che la paralisi sta arrivando e che ho forse 10-30 minuti per avvisare qualcuno.
Un’altra volta ho preso una tazza di tè con l’ergoterapista (terapista occupazionale) e mi sono alzata per farlo, ma subito ho sentito di essermi spinta troppo oltre: è stato troppo difficile anche tenere la testa diritta e sono stato riportata in reparto e messa a letto, dove sono entrata in paralisi.
TAC, risonanza magnetica con mezzo di contrasto e angiogramma con contrasto mi fanno lo stesso effetto, però almeno posso fare una risonanza magnetica senza contrasto. Anche la tachicardia protratta per troppo tempo o oltre una soglia limite mi scatena la paralisi, ma ci sono anche altre cose.
L’anno scorso ho fatto in intervento in anestesia generale e i medici hanno approfittato dell’occasione per farmi alcuni controlli di routine e qualche piccolo lavoro dentale: alla fine sono uscita dall’anestesia in paralisi. L’anestesista aveva usato dosaggi di breve durata ed era del tutto consapevole che avrei potuto risvegliarmi in piena paralisi. Sono stata curata brillantemente e sono stata sotto osservazione per quattro ore, mentre i medici monitoravano la paralisi e mi somministravano antidolorifici, e hanno aspettato che fossi almeno in grado di sussurrare prima di rimandarmi in camera mia.
L’enorme differenza di conoscere la procedura che avevamo preparato per questo evento – che l’anestesista e il suo staff sapevano cosa cercare e come gestirmi – ha significato che la mia ripresa fosse molto più veloce. Sono stata in ospedale per quattro settimane, mentre la volta precedente ci sono voluti due mesi perché non era stata messa in atto né la procedura né la formazione del personale. Questo dimostra chiaramente cosa può succedere quando il personale medico ascolta davvero i pazienti e lavora con loro come partner… Eppure ci sono voluti anni di discussioni con l’ospedale, di successivi rifiuti di terapia, anni in cui mi sono sentita dire che era tutto un fenomeno psicologico… la solita roba, prima che finalmente mi ascoltassero e che pianificassero insieme con me il Piano Cura.
Alcune informazioni molto utili sulla paralisi da Greg Crowhurst sono disponibili a questi link sotto:https://carersfight.blogspot.com/…/severe-me…https://stonebird.co.uk/channelopathy/paralysis.htm…
https://l.facebook.com/l.php?u=https%3A%2F%2Fcarersfight.blogspot.com%2F2020%2F09%2Fsevere-me-contemplate-paralysis-if-you.html%3Ffbclid%3DIwAR3vC2pVi2zlga-ziWXDK47vShyLniO-wO1xDgbxIBTueyWUCo1QLTABUEM&h=AT1Yc8oiYhV88eUKQbHeW2HEKf1FjqzX7kAEoIQfmWc0mh1An7LAxzX8XupAfusU-DeAwL9RugwJZNgrFRw5i3aaQqiTBIZkkp7SA46gg_MG1xinJD3snQxqJSPWuZlBJYr_&tn=%2CmH-R&c[0]=AT1U8e9816UjvzRuc5nxwdf70Ap_EgaLPlFC5ArawSoZO-GWE3fhCULqj6N8RzCj85ubKSwJ_U43uATY30va4dujSMugFKlGSw8EIDzuufPVySBCTHzrXR2sTMWiOixvRng1HiMsFGvTIjSMMgCI0lfT8SE1keAKL-g1GgBXumYoNNE
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